L’arcobaleno non mi aveva ingannato. Quell’arcobaleno che si stagliava nitido sul campanile di Liano davanti alla porta di casa mentre i Cardinali entravano in Conclave aveva, infatti, suscitato in me un misto di fanciullesca letizia e ingenua speranza.
Quando dal comignolo della Sistina è uscito il fumo bianco, ho trepidato temendo che i Cardinali non avessero avuto quel coraggio che in tanti avevamo impetrato nella preghiera, poi il Protodiacono ha dato l’annuncio (al “Georgium” ho tirato il primo sospiro di sollievo – anche io avevo dei nomi che mi suonavano ostici -al “Marium” ho realizzato che non avrei dovuto attendere il cognome per esultare; il nome “Francesco”, che da solo riempie il cuore di letizia e di aspettative, da qualche tempo sembrava nell’aria e io stesso un po’ me l’aspettavo: preparando alcune preghiere dei fedeli per mia moglie la settimana prima, avevo scritto, forse più a mo’ di inconsapevole auspicio che per intuito ,”preghiamo per Papa Francesco”), quindi il nuovo Vescovo di Roma si è presentato, con l’abito così candido che pareva il Gesù della Trasfigurazione, senza mozzetta e con una umile croce di ferro; subito ci ha fatto pregare (un Pater-Ave-Gloria, le orazioni dei semplici e la penitenza di tante confessioni); con il capo chino, ha invocato e accolto la preghiera del popolo su di Lui, in un silenzio che ha invaso Piazza San Pietro e il mondo, quasi inimmaginabile nel fragore roboante delle nostre giornate.
La novità dello Spirito sembrava nuovamente irrompere nella vita della Chiesa e così nel mio cuore è subito sorta una gioia profonda e pura, insieme a un sentimento di profonda gratitudine: gratitudine per i Cardinali che hanno saputo guardare lontano; gratitudine per Papa Benedetto, per il suo magistero e i suoi insegnamenti, limpidi e tersi come un cielo di montagna, infine per quella rinuncia che è forse l’espressione più alta del suo amore per la Chiesa.
Io, che al momento dell’elezione di Joseph Ratzinger avevo esitato dinanzi a colui che troppo a lungo era stato rigidissimo custode dell’ortodossia (quanto faticarono, in quei giorni, il mio Vescovo e Monsignor Gaino per tranquillizzarmi) e in alcune scelte e decisioni non ne ho condiviso appieno l’operato, vorrei ripetergli oggi quanto gli voglio bene, come gli confidai di persona quella volta – l’unica nella vita in cui ho guardato negli occhi un Papa e vi assicuro che negli occhi timidi di Papa Benedetto traspare la tenerezza di un uomo immensamente buono – mentre Lui teneva strette, tra le sue, le mani di mia moglie Federica e mie.
Povero Benedetto, che ha dovuto subire per otto anni il raffronto quasi estenuante con il predecessore (fino all’ingiusto oltraggio di asserire che, a differenza di Giovanni Paolo, sarebbe sceso dalla croce), mentre adesso la sua mite e amabile timidezza verrà giustapposta all’esuberanza del successore.
Benedetto porta ora la sua croce nel silenzio pieno di attesa del Sabato Santo.
Sul Tuo nuovo Oreb, Ti sia lieve e gentile la brezza, Santo Padre Benedetto!
Se non ci fosse stato quel gesto di umiltà e di coraggio di Papa Benedetto, chi mai avrebbe dischiuso la porta al vento di una rinnovata Pentecoste?
In un pomeriggio di settembre, in fila nella maestà del Duomo di Milano per dire il mio ultimo grazie a Carlo Maria Martini, quell’altro gesuita piemontese, ho visto anziani che parlavano di Lui a nipotini vivaci e ho avuto come il presentimento che qualcosa stesse per cambiare; così la sera dell’11 ottobre sotto la finestra del Papa, quando Benedetto ha ricordato con un velo di malinconia il Concilio e Papa Giovanni, mi è sembrato di intravvedere in filigrana, in quella sommessa rievocazione del passato, la profezia di una imminente nuova stagione nella vita della Chiesa.
Forse è vero che il Signore dona sempre alla Comunità dei suoi discepoli il Pastore di cui c’è bisogno e Giorgio Mario Bergoglio, un gesuita che ha scelto di chiamarsi “Francesco”, sembra rispondere all’esigenza, in questo tempo così fortemente avvertita, di sobrietà, calore, affabilità, tenerezza.
Si è subito presentato per quello che è, senza alcuna finzione, con le scarpe nere e dimesse, più volte rimaneggiate dal ciabattino, ha rifiutato la limousine e il corteo per accomodarsi sul pullmino con i suoi confratelli cardinali, ha declinato il trono e altri sfarzi, ha pagato il conto per i pernottamenti alla casa del clero, ha lasciato nell’armadio i gemelli, le pantofole rosse e le pianete preziose (fanno un po’ sorridere quegli adulatori entusiasti che fino a ieri plaudevano agli ori, ai troni, agli orpelli e ai fasti rinascimentali, sostenendo che finalmente era tornato un po’ di decoro, come se Paolo VI e Giovanni Paolo II girassero e celebrassero Messa in pigiama).
Predica in piedi all’ambone, il Successore di Pietro, come un bravo parroco di campagna, chiama al telefono gli amici come faceva da cardinale e alla amatissima Madonna ha portato un mazzolino di fiori alla buona, come un fidanzatino innamorato che ha quasi finito la paghetta.
Contemplando con stupore Francesco, talora mi trovo a pensare, con una punta di orgoglio e di campanilismo, che in fondo nel suo sangue e nel suo cuore c’è la nostra terra del Monferrato, quella terra che il Vescovo di Buenos Aires si era portato in Argentina in un’ampolla ed è anche, in un certo modo, presente, accanto al monogramma di Cristo tipico dei gesuiti e alla stella di Maria, nel leggiadro stemma episcopale (il cultore di araldica parlerebbe di nardo di San Giuseppe, ma il grappolo fa immediatamente pensare alle vigne che i cugini Bergoglio rimasti in Piemonte coltivano nella pace dei colli di Portacomaro).
Nel carattere e nel modo sobrio e umile di porsi c’è più di una traccia della “rassa nostrana libera e testarda”, come recita la poesia vernacolare insegnata dalla nonna Rosa Margherita al bambino Giorgio, mandata a memoria e mai più dimenticata; quella nonna – nata in un borghetto della Diocesi di Acqui – che aveva impartito al nipote, in dialetto piemontese, i primi semplici e solidi rudimenti della fede e la cui sapienza del cuore spesso affiora nelle omelie del nipote Pontefice, che hanno il profumo buono della casa e del pane.
Francesco, il nostro fratello Papa, che ci conferma nella fede e ci mostra ogni giorno la bellezza di essere discepoli e avere Cristo come fratello, amico e compagno di strada, non deve neppure appellarsi continuamente al Concilio (altri, per rassicurare, avrebbero dovuto citarlo almeno quattordici volte a settimana), perché è davvero il Concilio incarnato.
Nel suo stile e nelle sue parole, del Concilio c’è l’ecclesiologia (la collegialità, la corresponsabilità e quella ritrosia di stampo ecumenico a definirsi “papa”), l’attenzione premurosa al mondo e agli ultimi (e finalmente cesseranno quelle diatribe e quelle disquisizioni così leziose sulle varie ermeneutiche).
Il dono che il Papato torna a fare, il più impalpabile, nato insieme alla speranza, è la gioia.
Un dono – come l’amore – che condividendolo non si consuma e non si esaurisce, ma si sviluppa e cresce; un dono di cui sembrano godere insieme i cristiani praticanti, quelli che sono sulla soglia e anche i non credenti.
Sogniamo allora con Papa Francesco una Chiesa povera e per i poveri, quell’ideale di meravigliosi sognatori come Giacomo Lercaro, Giuseppe Dossetti, Helder Camara, Antonio Bello e Luigi Bettazzi, eppure dirlo, o anche solo pensarlo, fino a ieri era irriso da molti come un’illusione ai limiti dell’eresia.
Diamo fiducia al Successore dell’Apostolo Pietro, sosteniamolo con la preghiera, gustiamoci la tenerezza della sua paternità, ci siano di sprone e di esempio i suoi insegnamenti e i suoi piccoli gesti che ora ci lasciano incantati.
Nell’avvicendarsi delle stagioni, a cinquant’anni dal discorso alla luna del buon Papa Giovanni e dal Concilio, come dopo un lungo e difficile inverno, sembra tornare la primavera e così, mentre il nuovo Vescovo di Roma inizia il cammino con il popolo di Dio che gli è stato affidato, la natura riempie di nuovi colori e profumi le nostre dolci colline del Monferrato, il cui ricordo pacificante certe notti culla i sogni di Papa Francesco.